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IL LAGO degli SCHIAVI

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IL LAGO degli SCHIAVI

Valter Maccantelli

Il Grande Lago degli Schiavi non è in Africa, è nel Canada nord-occidentale a cavallo del Circolo Polare Artico. È di solito ghiacciato e popolato da piccole comunità, spesso isolate, nelle quali la prima causa di morte è probabilmente l’attacco da parte degli orsi. Per uno di quei paradossi che ogni tanto anche la geografia, e non solo la storia, ci riserva, questo toponimo sarebbe assai più adatto per un altro lago, situato nel cuore del continente africano: il Lago Ciad, sulle cui coste si affacciano Nigeria, Niger (in senso più simbolico che reale), Ciad, e Camerun.

Di solito parlando di un lago il primo dato che si guarda è la sua estensione, il suo contorno cartografico, ma per il Lago Ciad questa identificazione risulta se non impossibile quantomeno molto difficile: il bacino lacustre ha una scarsa profondità media, 1,5 metri (la massima è di 5-7 m.), quindi le differenze di apporto idrico danno luogo a grandi cambiamenti della superfice. Nel 1870 si estendeva per 28.000 Km2 oggi per 1.500. Con l’affievolirsi delle siccità ai margini del suo immenso bacino idrografico (3.000.000 di Kmq, ¼ dell’Europa e 10 volte l’Italia) alcuni ne ipotizzano una parziale rinascita. Per fare un paragone, il Lago di Garda è 370 Kmq.

Questa caratteristica lo rende l’incubo dei cartografi e una zona grigia sotto il profilo geopolitico. Nella terra di tutti e di nessuno lungo le sue sponde vivono circa trenta milioni di persone.

Il ritiro delle acque crea nuove terre coltivabili che diventano contese tra vecchi contadini e nuovi coloni attirati dagli spazi contendibili; l’espansione, anche semplicemente stagionale, fa arretrare lo spazio vivibile e comprime gli abitanti costieri in aree sovrapposte. Villaggi e porti un tempo rivieraschi e con vocazione peschereccia oggi giacciono abbandonati nella pianura e nuovi insediamenti nascono lungo le nuove coste. Le vie commerciali che lo circondano si spostano, si allungano, diventano praticabili o impraticabili nel volgere di una stagione. Un quadro non insolito in Africa ma che qui raggiunge livelli molto alti generando un’instabilità politica simmetrica a quella geografica.

Fino a questo punto potremmo pensare che i problemi del Lago Ciad sono certamente gravi ma in ultima analisi imputabili a fenomeni naturali, magari mal gestiti dal punto di vista ambientale, ma risolvibili con interventi di natura infrastrutturale. È un’illusione che molti si allevano, specialmente nelle grandi istituzioni internazionali. In questi anni sono stati proposti, studiati, iniziati, rinnovati, mai-finiti, decine di piani agrari, idrici, faunistici, ittici etc. che si sono regolarmente impantanati sulle rive limacciose del Lago. Sia chiaro che questi fattori critici esistono e il tentativo di risolverli o alleviarli è senza dubbio auspicabile e doveroso. Purtroppo, però, i problemi che hanno trasformato quest’area acquitrinosa in vero e proprio buco nero sono altri.

Attorno al Lago si svolgono almeno tre grandi partite geopolitiche, legate in un crescendo d’intrecci che, sovrapponendosi ai tradizionali fattori locali di instabilità, rendono questa regione il fulcro di una crisi con riflessi globali evidenti:

-      Instabilità della fascia sahariana (principalmente riflessi della crisi in Libia).

-      Grandi traffici illegali (principalmente esseri umani, droga e armi).

-      Jihadismo islamico (principalmente Boko Haram e al-Qaeda nel Maghreb Islamico, di seguito AQMI).

Instabilità Sahariana

Anche se le cosiddette “Primavere Arabe” hanno poco più di un lustro, la storia sembra avere già espresso su di loro un giudizio abbastanza definito: disastro totale. Pur affondando le radici in problemi drammaticamente reali, le rivolte, forse nate spontaneamente, hanno finito con l’essere funzionali al miope (volendo essere ingenui) progetto geopolitico dell’amministrazione Obama-Clinton. A sei anni dagli eventi, delle sei nazioni interessate dalle “primavere”, tre (Libia, Siria e Yemen) sono in preda a devastanti guerre civili, due (Egitto e Algeria) sono in pratica sotto legge marziale e soltanto la Tunisia sta ritrovando una pallida idea di normalità. Non esattamente le sorti magnifiche e progressive previste dai media mainstream.

Noi europei, e particolarmente noi italiani, siamo naturalmente portati a focalizzare la nostra attenzione sulle coste mediterranee del continente africano. Tendiamo a considerare il sub-Sahara come una specie di “retrobottega” nel quale poter nascondere le cose che ci danno fastidio.  Anche questa è una pia illusione perché in realtà ciò che arriva alla vetrina mediterranea è passato prima per il “ripostiglio” saheliano.

Il fatto che più ha influito sul quadrante ciadiano è senza dubbio il crollo del regime libico del 2011. Per comprendere quale sia stato l’effetto di questa implosione occorre prima individuare quale ruolo svolgeva Gheddafi mentre era in vita. Come molti stanno imparando a proprie spese, la Libia è un coacervo di etnie, tribù e clan in reciproco conflitto che si governa soltanto stabilendo un equilibrio, spesso del terrore, fra le diverse parti. Piaccia o no Gheddafi era abile nello stabilire e mantenere tale equilibrio.

Il suo potere si esercitava sulla costa a nord ma traeva energie dal profondo sud. Molte delle unità di élite della sua sicurezza reclutavano i propri elementi più fidati fra le tribù meridionali, lontane dai giochi di potere delle grandi città. Anche il nerbo pretoriano del regime, la 32° brigata comandata dal figlio Khamis, era composta in gran parte da questo tipo di miliziani. Gheddafi volle astutamente introdurre un altro contrappeso nelle sue forze di sicurezza: reclutò molti soldati di origine Tuareg, Qadhadhfa, Warfalla, etc. che nel tempo avevano abbandonato la Libia e si erano stanziati in Mali, Niger e Nigeria.  In queste nazioni avevano dato origine ad una specie “zona di libero scambio” che aveva nel Lago Ciad uno dei suoi epicentri. Vivevano facendo gli “operatori logistici” per qualunque tipo di traffico, ruolo per il quale questi gruppi possedevano un solido know-how che affondava nel commercio degli schiavi del XVIII e XIX secolo.

In questo modo il Rais otteneva molteplici risultati: reclutava personale di sicurezza “fidato”, lo retribuiva permettendogli di esercitare sotto il suo controllo i propri traffici, era sempre informato di quello che succedeva e omologava al proprio regime almeno una parte dell’irredentismo Tuareg, grande elemento di destabilizzazione storica della fascia sahariana e sub-sahariana.

Un episodio, lontano nel tempo e oramai dimenticato, rivela plasticamente le modalità di utilizzo di queste milizie saheliane da parte del regime. Nel giugno 2011, ancora regnante il Colonnello (sarà ucciso il 20 ottobre), una pattuglia dell’esercito del Niger fermò nel deserto un convoglio diretto a sud, dalla Libia verso il Mali. Sui mezzi furono rinvenute molte armi, tra cui 630 chili di Semtex, e notevoli quantità di denaro. A capo del convoglio si trovavano Ibrahim Alambo, fratello di Aghali Alambo leader della rivolta tuareg del 2007, e Abta Hamidine, co-leader della stessa rivolta. Dopo una stringente opera di convincimento Abta rivelò alle autorità che il materiale e il denaro rinvenuti sul convoglio, provenienti dagli arsenali libici, erano il pagamento per una mediazione che il suo gruppo stava conducendo per conto del Rais con AQMI. Gheddafi, sentendo il fiato di Sarkozy sul collo, cercava di farsi consegnare da AQMI i cinque tecnici francesi della società Areva-Satom, rapiti nella miniera di uranio di Arlit nel settembre 2010, per offrirli al Presidente francese come calumet della Pace.

I trafficanti-miliziani-soldati sono stati adottati, addestrati, armati e controllati dalle forze libiche per decenni. Quando Gheddafi venne a Roma e chiese spavaldamente a chi gli obiettava l’inumanità dei suoi metodi “quanti milioni di profughi africani volete che vi mandi?” sapeva bene di avere il controllo dei rubinetti saheliani mediante le sue milizie mercenarie. La repentina dipartita di Gheddafi ha lasciato queste realtà certamente orfane ma per nulla disperate: a quel punto avevano a disposizione, oltre alla tradizionale conoscenza del territorio e dei suoi traffici, l’addestramento militare ricevuto e gli enormi depositi di armi abbandonati. Si sono limitati a tornare a casa in Niger, Nigeria, Ciad e Mali dove hanno ricominciato a fare, in autogestione, quello che facevano prima: traffici, guerriglia, lotte tribali.

Questa ondata di ritorno si è primariamente diretta verso Mali e Nigeria, sfiorando il Niger settentrionale, ma l’accresciuta presenza di forze di sicurezza lungo queste direttrici sta spingendo le rotte della guerriglia verso sud-est, precisamente nell’area che circonda il Lago Ciad.

Traffici

Le rotte, le strade, i punti di raccolta che innervano la fascia di transizione sub-sahariana non sono solo vettori di tensioni politiche ed etniche. Al contrario questa rete ha preceduto, anche di secoli, le dinamiche contemporanee che la attraversano. Dal commercio degli schiavi fino al moderno contrabbando, su queste vie sono passati esseri umani, beni di lusso, armi e ogni altro tipo di merci lecite e illecite. Il carattere transfrontaliero degli insediamenti tribali rende labili i confini e sostanzialmente impossibili i controlli. Non è stato lo scenario a generare la rete ma è la rete ad alimentare continuamente quello scenario.

Oggi le “merci” che percorrono queste lande sono sostanzialmente di quattro tipi: armamenti, migranti, droghe e beni contraffatti (specialmente medicinali). Delle armi e degli arsenali dispersi della Libia abbiamo già detto. La contraffazione di medicinali è uno dei fronti emergenti e sta diventando una fonte di introiti notevole per le grandi organizzazioni criminali, ma, visto il prevalente profilo criminale, mi limito a citarlo a futura memoria. Il fronte principale, soprattutto per le conseguenze che riverbera su di noi, è costituito da droghe e migranti.

Nel mondo globalizzato anche l’attività criminale acquisisce nuove dimensioni e occupa nuovi spazi. A volte lo fa prima delle attività lecite. Uno degli esempi più eclatanti sono le rotte del narcotraffico. Oramai da molti anni l’Africa è diventato uno dei principali terreni di transito della droga sud-americana verso i ricchi mercati di Europa ed Oriente. Le difficoltà sempre maggiori a penetrare il mercato nord-americano hanno visto crescere la rotta transatlantica che dal Golfo del Messico raggiunge l’Africa Nord-Occidentale. Viene soprannominata “La rotta del 10° parallelo” perché lo cavalca per gran parte della sua lunghezza.

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Il 10° parallelo prende terra, nel continente africano, sulle coste della Guinea, poco sotto la Guinea Bissau che       l’ONU ha indicato nel 2008 come esempio tipico di stato-mafia o narco-stato. Definizione ampiamente discutibile     ma che indica come la criminalità organizzata sia penetrata nei gangli dell’amministrazione statale al punto da   identificarsi con essa. Una sorte non dissimile è toccata al Togo, più a sud nel Golfo di Guinea. I porti lungo questa   costa sono diventati il punto di approdo di un flusso incalcolabile di droga che dalla costa prende la strada che   penetra orizzontalmente nel Sahel, appunto lungo il 10° parallelo, per poi piegare il prima possibile verso nord per   raggiungere le coste mediterranee.

Fino a pochi anni or sono la rotta principale attraversava il Mali o il nord della Nigeria per poi penetrare nel profondo sud Algerino e piombare nel buco nero della Libia, via di uscita privilegiata dall’Africa per un salto tutto sommato comodo verso l’Europa. L’intervento francese nel Mali del nord, la presenza di un ampio schieramento di forze speciali occidentali in Nigeria e Niger e il rinnovato impegno verso il proprio sud del governo algerino hanno reso difficile questa direttrice. I trafficanti, con l’elasticità che li caratterizza, hanno quindi cominciato a prolungare verso est il tratto orizzontale della rotta, per aggirare da sud-est la zona “di pericolo”.

Se noi camminiamo idealmente sul 10° parallelo da Ovest verso Est incontriamo nell’ordine: Guinea, Sierra Leone, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Ghana, Benin, Togo, Nigeria e Camerun; quest’ultimo esattamente all’altezza della sua convergenza verso il…. Lago Ciad. La tendenza è quindi chiaramente quella ad usare il bacino del lago come perno di svolta verso nord, accentuando il ginocchio della curva.

Se pensiamo che il problema non riguardi l’Italia ci sbagliamo: la capacità di lettura del quadro geopolitico della criminalità organizzata si va sempre più raffinando.  La Relazione 2015, pubblicata nel 2016, della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (DCSA) evidenzia l’interesse delle mafie nostrane per questo angolo di Africa. In particolare segnalano la presenza di camorristi dei Marano e dei Casalesi a Casablanca, dei Cuntrera e Caruana a Bissau (Guinea), delle ‘ndrine di Platì, dei Morabito e degli Arena di Capo Rizzuto a Dakar (Senegal), della cosca Madonia di San Lorenzo ad Abidjan (Costa d’Avorio), mentre la camorra è presente con Di Giovine e Morabito a Lagos (Nigeria).

Lo stesso andamento, con non poche sovrapposizione, può essere usato per descrivere il commercio di esseri umani che alimenta il flusso dei migranti non economici fino alle nostre coste. Nel 2014-2015 Mali, Nigeria e Gambia hanno occupato rispettivamente 3, 4 e 5 posto fra le nazionalità dichiarate dai richiedenti asilo, accorpando le quote da tutti i paesi della regione si raggiunge il 15-16 % del totale degli arrivi sulla rotta detta del Mediterraneo Centrale alle frontiere europee. Il bacino del Lago Ciad con i suoi 3.000.000 di Kmq si appresta a diventare un punto significativo di raccolta per chi oggi percorre, in direzione opposta a quella dei secoli passati, questa nuova rotta degli schiavi.

Oltre che punto di raccolta il bacino del lago Ciad è anche un importante “produttore” di profughi. Le nubi di guerriglia che si addensano sempre più minacciose sul lago, complici anche le montanti crisi idrico-alimentari, hanno generato lo spostamento coatto di milioni di persone che fuggono dalla violenza e dai pericoli verso i campi profughi delle varie ONG situati ai margini del bacino.

Jihadismo

Se il lago e i suoi dintorni sono da sempre un covo di traffici e trafficanti che espongono le popolazioni al rischio di soprusi e violenze, è stato il jihadismo a portare a queste latitudini la guerra vera. L’ultra-fondamentalismo islamico armato gioca un ruolo sempre più importante nel Sahel e nel Sahel grazie a due attori principali: al-Queda nel Maghreb Islamico (AQMI) e Boko Haram, circondati da una serie di attori minori che mercanteggiano continuamente la propria obbedienza all’uno o all’altro.

AQMI non ha radici autoctone nella regione saheliana: viene da nord, come ultima denominazione di una serie di movimenti nati per scissione dal GIA algerino, che attraverso il Gruppo Salafita per la Preghiera e il Combattimento sono confluiti nel network Qaedista e ne hanno formato la branca locale. Secondo il format originale di Osama Bin Laden questo movimento non è particolarmente interessato al controllo di un territorio e vede nelle nebulose terre sub-sahariane principalmente un luogo “tranquillo” in cui organizzare la propria rete per colpire spesso altrove. AQMI aveva scelto come proprio rifugio il Mali centro-settentrionale dove aveva costituito una importante serie di “santuari” posizionati sulle importanti vie carovaniere che attraversavano il paese da sud verso nord e che lo rendevano la retrovia ideale per quello che considerava il suo fronte primario: l’Africa Sahariana e mediterranea.

A rovinare questo quadro è arrivata l’operazione militare francese Serval del 2013. Con un intervento militare di consistenza importante, destinato a riaffermare gli interessi transalpini nell’Africa Orientale, Parigi ha reso meno sicure per i jihadisti le strade maliane. AQMI, come il resto di al-Queda, pur non avendo preclusioni verso chiunque sia utile alla causa, è un movimento a forte vocazione etnico-culturale di impronta araba. Messo sotto pressione in Mali, terra per loro di passaggio, ha cercato di ritornare a nord, verso l’Algeria, il Marocco, la Tunisia, in terre che percepiva naturalmente più affini. Questa sua fuga verso nord si è però scontrata con la ritrovata efficienza degli apparati di sicurezza di questi paesi che, con l’aiuto più o meno velato dei servizi occidentali, non sono sembrati affatto disposti ad assecondare questo ritorno.

La natura clandestina delle cellule di al-Qaeda, interessata a reclutare pochi soggetti con formazione elevata e predisposizione alla guerra terroristica in contesti altamente sorvegliati, rende molto difficile le previsioni circa le sue scelte di posizionamento tattico. È comunque possibile immaginare, come alcuni frammenti di informazioni di intelligence lasciano sospettare, che anche AQMI cerchi una via di alleggerimento verso il centro del Sahel e quindi verso la zona del Lago Ciad. Dato più volte per morto, il network che fu di Bin Laden ed è oggi (forse) di al-Zawairi, sembra aver ritrovato negli ultimi mesi un certo vigore che si trasmette anche alle sue filiazioni più periferiche come AQMI. La perdita di terreno – e quindi di credibilità – di Daesh e del suo capo, Abu Bakr al-Baghdadi, hanno convinto alcuni movimenti e/o capetti jihadisti locali, che dopo i successi del 2014-2015 avevano giurato fedeltà al sedicente califfo, a ritornare verso al-Qaeda e a rinnovargli obbedienza.

BOKO HARAM invece sulle sponde del lago ci è praticamente nato. Questo epifenomeno africano del jihadismo più violento ed estremo, conosciuto con il suo nome in lingua Hausa (Boko Haram, appunto, che liberamente tradotto significa “La cultura occidentale è cosa cattiva/vietata”) – il nome in arabo (Jamāʿat Ahl al-Sunna li-daʿwa wa l-Jihād) sarebbe “Confraternita per la propaganda della Sunna e del Jihad” – non nasce in realtà come movimento terrorista in senso classico. Si aggrega, verso la metà degli anni ’90 e con il nome originario di Sahaba (Compagni del Profeta), attorno alla predicazione di Abubakar Lawan, poi emigrato ad insegnare a Medina e sostituto da un’altra figura atipica dell’islam nigeriano, Mohammed Yusuf, morto nel 2009.

Questi soggetti erano certamente esponenti di un islam integralista e salafita, ma avevano in mente un movimento che noi definiremmo “irredentista” dal punto di vista politico e “di risveglio/riforma” dal punto di vista religioso. Il progetto era quello di trasformare i territori nord-orientali della Nigeria, a maggioranza islamica ma abitati anche da importanti comunità cristiane e animiste, in sultanati musulmani ove applicare la sharia. Per attuare questo progetto, come altri prima di loro, proponevano un ritorno molto letterale all’islam delle origini, cioè a quello praticato dai primissimi “Compagni del Profeta”, da cui il primo nome.

Il suo modello operativo consisteva nell’apertura, negli stati nigeriani di Borno, Kano, Jobo e Jgawa, di scuole coraniche e moschee al di fuori dei circuiti dell’islam ufficiale, considerato corrotto, che attiravano da tutta la regione del lago giovani desiderosi di formazione religiosa. In questa fase Boko Haram è sembrato avere come modello quello dei Talebani afgani: studenti coranici radicalizzati che insistono su di un territorio e sulle sue etnie (nel caso del Borno i Kanuri), cercandone il controllo politico grazie alla predicazione religiosa.

Come ci insegna il caso dei Talebani, questi movimenti hanno un comportamento pubblico che è border line rispetto alla violenza ma che non si configura come guerriglia e terrorismo, è più simile a quello della gang. La svolta avviene nel 2009 e la banalità dell’episodio considerato scatenante dimostra certamente un progetto preesistente di confronto militare con il governo centrale della Nigeria, stato federale in cui circa la metà della popolazione non è musulmana.

Nel 2009 l’amministrazione emanò una legge che si prefiggeva di incrementare l’uso del casco da parte dei motocilisti. Sulla base degli ordini ricevuti i poliziotti di Maiduguri, la capitale del Borno, fermarono un gruppo di membri di Boko Haram convenuti in città per un funerale, ovviamente senza casco. Scoppiarono degli scontri nei quali morirono quattro membri del gruppo e altri vennero arrestati. A quel punto Yusuf scrisse un infuocato sermone, pubblicato con il titolo di “Lettera aperta al Governo federale”, nella quale intimava al governo di risolvere entro 40 giorni il contezioso con il gruppo, in caso contrario avrebbero avuto inizio le operazioni “del jihad”. Trascorso inutilmente l’ultimatum il 28 luglio 2009 l’esercito nigeriano lancia un’offensiva contro le roccaforti del movimento, gli scontri producono circa 1000 vittime, Yusuf viene arrestato e morirà durante il periodo di custodia presso il quartier generale della polizia. È iniziata la guerra civile nel nord-est nigeriano: sia i guerriglieri sopravvissuti che parte della popolazione civile comincia a fuggire dai centri urbani per rifugiarsi sulle rive del Lago Ciad o nella vicina foresta di Sambisa.

Dopo un periodo di riorganizzazione Boko Haram tornerà alla ribalta delle cronache con un nuovo capo, Abubakar Shekau, noto per il suo comportamento squilibrato e violento, come evidenziato da numerosi filmati pubblicati dallo stesso Shekau. Dal 2009 ad oggi si stima che il conflitto abbia prodotto più di 20.000 vittime e molti milioni (impossibile sapere quanti) di sfollati nelle aree del lago e di profughi verso il Nord Africa. Attentati in luoghi pubblici, specialmente chiese e scuole cristiane, rapimenti di massa di ragazze destinate alla schiavitù, assalti a centri urbani con migliaia di vittime (quello a Baga nel 2015 ha sconvolto il mondo) sono diventati la regola pressoché quotidiana della vita in questi luoghi.

Il rapporto fra Boko Haram e il terrorismo islamico mondiale, in particolare con ISIS/Daesh, è stato oggetto di molto interesse in questi anni da parte di stampa e specialisti. Dopo una iniziale associazione, non si sa quanto reale vista la radicale distanza di obiettivi tra i due movimenti, al network di al-Qaeda, Shekau ha decisamente rivolto le sue attenzioni all’autoproclamato califfato di Abu Bakr al-Bagdadi. Se ne trova conferma in un articolo apparso sul numero sul numero 8 (pp.14-16)  di Dabiq, versione inglese, (la patinata rivista considerata l’organo ufficiale di Daesh):  “On the 16th of Jumādā al-Ūlā (7 marzo 2015) the mujāhid Shaykh Abū Bakr Shekau (hafidhahullāh), leader of Jamā’at Ahlis-Sunnah lid-Da’wah wal-Jihād (nome arabo di Boko Haram) in West Africa, announced his group’s bay’ah (giuramento di fedeltà) to Amīrul-Mu’minīn brāhīm Ibn ‘Awwād al-Qurashī (uno dei titoli con cui al-Bagdhadi si fa chiamare dai suoi)”.

Negli ultimi mesi, con la perdita quasi certa di gran parte del territorio di Daesh in Siria e Iraq, molti analisti hanno preso in considerazione l’ipotesi che il sedicente califfo potesse trasferire il suo quartier generale nei territori di Boko Haram, protetto dalle paludi del Lago Ciad. L’ipotesi aveva, ed ha, senza dubbio un suo fondamento ma con il passare del tempo è diventata sempre più difficile da praticare perché anche Boko Haram sta attraversando una serie di problemi interni legati all’ambigua figura del suo leader. Abubakar Shekau è stato dato per morto, ferito, catturato, arreso o impazzito più volte nel corso degli ultimi 7 anni. Nelle ultime settimane è stato diffuso un suo video nel quale, oltre a confermare di essere vivo, invita i suoi al combattimento e diffida le autorità camerunesi dal dire che si sarebbe arreso.

Questi suoi atteggiamenti hanno complicato non poco i rapporti di Boko Haram con lo Stato Islamico. Secondo fonti attendibili nell’agosto 2016 il quartier generale di Daesh avrebbe ritirato la sua fiducia a Shekau e lo avrebbe sostituito con Abu Musab al-Barnawi, figlio 22enne di Mohammed Yusuf. Shekau ha replicato rifiutando l’avvicendamento e sancendo di fatto la spaccatura del movimento. Non è una bella notizia: le due fazioni hanno cominciato a contendersi, tra di loro e con le forze di sicurezza degli stati confinanti, gli effimeri arcipelaghi creati dal Lago, in un tutti contro tutti che somma conflitto a conflitti, peggiorando ulteriormente la condizione degli insediamenti civili.

Per seguire l’evoluzione dei “rapporti” fra Boko Haram e Niger negli ultimi anni è necessario porre due premesse.

-          In primo luogo il fattore posizionale geografico: senza smentire quanto abbiamo finora detto, il Niger, in particolare la sua provincia di Diffa, oggi non si affaccia più       direttamente sul lago, Il forte ritiro delle acque lo ha allontanato dal confine nigerino; è comunque corretto considerarlo uno stato rivierasco perché è proprio sul lato nigerino che si sono creati la maggior parte degli acquitrini e terre umide che agevolano le mini-migrazione locali nel cui flusso Boko Haram si è ampiamente infiltrato.

-          In secondo luogo gli aspetti etnico-culturali: la stessa provincia nigerina di Diffa confina per un lungo tratto con lo stato nigeriano del Borno, dove Boko Haram è nato, e finisce con il costituire un territorio umano unico, area primaria di espansione del movimento jihadista al di fuori della nativa Nigeria.

Già prima del 2009, cioè prima che Boko Haram assumesse il suo aspetto più violento, la gioventù nigerina di Diffa era terreno fertile per la predicazione di Mohamed Yusuf, fondatore ed ideologo del movimento. La distanza relativamente breve per gli standard africani tra i due capoluoghi, 435 km tra Maiduguri (Nigeria-Borno) e Diffa city (Niger-Diffa), una relativa sovrapposizione linguistica, la comune appartenenza religiosa e l’intensità degli scambi commerciali, rendevano agevole per i giovani nigerini ascoltare la predicazione di Yusuf e dei suoi discepoli.

Nel 2009, quando l’esercito nigeriano attaccò pesantemente le posizioni di Boko Haram nel Borno, i superstiti si rifugiarono per la maggior parte sul lato nigerino del confine per riorganizzarsi e ritornare non appena si fosse esaurita la pressione delle forze di sicurezza di Lagos. Questi fatti hanno portato ad instaurare, fra il 2009 e il 2014, un rapporto parzialmente “equivoco” fra la guerriglia jihadista nigeriana e il governo di Niamey. I jihadisti, da un lato, si astenevano dal condurre azioni eclatanti sulla sponda nigerina per non turbare la relativa tranquillità di quello che consideravano un rifugio e non un teatro di guerra; il governo nigerino, dall’altro, manteneva un atteggiamento di osservatore a distanza e non ostacolava in modo esplicito la presenza dei guerriglieri in quella provincia lontana dalla capitale.

Questa tregua si è rotta nel 2014 quando le attività di Boko Haram nella zona di Diffa presero nuovo vigore e si allinearono a quelle dei territori considerati nemici: reclutamento aggressivo fra i giovani, uccisione di soldati nigerini lungo il confine e, soprattutto, attacchi agli insediamenti provvisori di chi, nigeriano o nigerino, fuggiva dalle zone più calde e si rifugiava nella paludosa terra di nessuno del Lago. Si calcola che, in aggiunta a 241.000 sfollati interni, il Niger ospiti anche 157.000 rifugiati dalla Nigeria che vivono in 135 insediamenti provvisori lungo il confine, sottoposti a continui attacchi dei guerriglieri-terroristi. Un bilancio delle vittime è di fatto impossibile ma in Europa farebbe gridare allo sterminio.

Un po’ per necessità interna e un po’ sotto pressioni internazionali, che a tratti rasentano il ricatto con la minaccia di interrompere gli aiuti da cui il paese dipende, il Niger è entrato quindi in guerra contro Boko Haram. Una guerra complessa, impegnativa e distante dalle basi principali che da due anni sta dissanguando le già misere casse del paese e paralizzando le sue attività economiche nella regione del Lago.

Il Camerun ha vissuto, almeno negli ultimi quattro anni, una storia abbastanza simile a quella del Niger. Considerato prima una base logistica e un rifugio sicuro è poi passato ad essere terreno di reclutamento e quindi di scontro. Anche qui il jihadismo ha trovato terreno fertile in una gioventù delusa, a tratti disperata, che vede nella guerriglia religiosa una via per il riscatto e, spesso, per la vendetta sociale. Non siamo nel ricco Golfo Persico dove la guerra in nome di Allah è spesso retaggio di fasce giovanili di ceto medio alto con una forte connotazione ideologica; qui sono la povertà e le precarie condizioni vita a rendere l’attentato suicida una prospettiva percorribile.

Nei primi anni 2000 il governo di Yaoundè è stato restio ad intervenire, complice la strisciante e duratura inimicizia con la Nigeria e l’oggettiva distanza del teatro di scontro dal centro. Il Camerun si protende verso il Lago Ciad attraverso quello che i geografi definiscono “il dito”. Uno stretto corridoio fra Nigeria e Ciad fortemente voluto dal governo coloniale tedesco nel XIX secolo al fine permettere alla Germania di accedere alle sponde del lago in competizione con Francia e Regno Unito.  Da quando, nel 2013, il Camerun ha deciso di contrastare militarmente Boko Haram a causa della pressione che quest’ultimo esercitava sulla sua regione dell’estremo Nord, il paese è stato oggetto di 360 attacchi e di più di 50 attentati suicidi per un totale stimato di circa 1600 vittime.

Come nel caso del Niger, nonostante il quadro appaia già abbastanza drammatico così, in realtà il fronte più problematico non è quello militare ma quello latu sensu “migratorio”. Questo remoto e sottosviluppato angolo settentrionale del Camerun ospita 191.000 sfollati interni e 360.000 rifugiati esterni; lo scorso 24 febbraio alla Oslo Humanitarian Conference è stato indicato come una delle aree a maggior rischio di carestia del mondo. L’esempio più evidente è il campo profughi di Minawao, lungo il confine Camerun-Nigeria poco più a sud del Lago Ciad. Nato nel 2013, è passato in questi anni da 18.000 a 60.000 ospiti, occupa 623 ettari e ogni settimana vi nascono 60 bambini.

In Ciad la presenza di Boko Haram viene segnalata come significativa soltanto nel 2014, in ritardo rispetto agli altri paesi confinanti, ma ha rapidamente raggiunto il suo culmine nel 2015. Il Ciad ha comunque pagato un prezzo pesante per l’espansione sul suo territorio del gruppo jihadista nigeriano: ha subito due sanguinosi attentati suicidi nella capitale N’Djamena e numerosissimi attacchi letali nei villaggi sulle rive dell’omonimo lago. Questa è senza dubbio la regione più colpita: dal 2015 ad oggi si contano 400-500 morti; nel tragico balletto degli sfollati attorno al lago, il lato ciadiano ha ricevuto negli ultimi due anni almeno 100.000 sfollati provvisori e circa 10.000 profughi stabili.

Occorre tenere presente che il Ciad occupa costantemente gli ultimi posti in tutte le classifiche mondiali della qualità di vita: dall’aspettativa di vita (ultimo con 49 anni) alla mortalità infantile (94/1000) al PIL pro-capite annuo (943 $). La reazione del governo centrale nel 2016 è stata molto robusta e, pur non avendo risolto il problema, ha certamente contenuto il fenomeno meglio di come hanno fatto i suoi vicini, al prezzo di pesanti danni per la già disastrata economia.

Questa situazione di interessi economici e militari sovrapposti sta generando una rapida militarizzazione internazionale dell’area. Un numero sempre maggiore di potenze non africane manifesta concretamente la propria presenza militare, nel tentativo di convincere le forze di sicurezza dei paesi interessati ad un maggiore impegno e con la dichiarata intenzione di difendere i propri interessi. Il Niger è da anni la base principali dei droni americani in Africa, destinati al controllo di questi e altri conflitti. Francia e Regno Unito tendono ad espandere verso il lago la propria presenza in Mali. La Germania, cosa assai rara, in occasione della vista della Cancelliera Merkel lo scorso autunno ha manifestato la sua intenzione di aprire un base in Niger. Negli ambienti militari viene dato per certa la notizia che Israele ha collaborato attivamente a formare un gruppo di 1800 soldati delle forze speciali del Camerun impegnate nel contrasto a Boko Haram. A queste notizie si aggiungono voci non confermate, e spesso non confermabili, sulla presenza di consiglieri militari di mezzo mondo, dalla Turchia alla Cina.

Deriva colombiana: i vigilantes

Come ulteriore evoluzione di questo quadro gli esperti stanno notando un notevole incremento del cosiddetto vigilantismo: la sempre maggiore attività di milizie, legate a specifici interessi di autodifesa di comunità e gruppi di interesse locale. Tali milizie vengono non solo tollerate ma spesso incoraggiate e foraggiate dai governi degli stati rivieraschi perché hanno rappresentato nell’ultimo anno lo strumento più attivo per arginare l’aggressione di Boko Haram.

Si tratta di un fenomeno per molti versi comprensibile ma gravido di rischi. I governi dell’area, che sono incapaci di contrastare la guerriglia jihadista per ragioni di costo, estraneità etnica o inefficienza delle proprie forze regolari, lasciano fare il lavoro a forze irregolari, delle quali non rispondono ma che neppure controllano pienamente. Altrettanto comprensibile è la volontà delle comunità locali di organizzarsi in gruppi di autodifesa nel tentativo di preservare la propria integrità e sopravvivenza.

La nazione maggiormente interessata dal fenomeno è ovviamente la Nigeria. Nel solo territorio del Borno si stimano circa 26.000 vigilanti, utilizzati dall’esercito regolare nigeriano come esploratori, fonti di intelligence e controllori di porzioni di territorio ed esso precluse. Il fenomeno sembra aver avuto origine con la “ribellione” di Maiduguri nel 2013. Un commerciante di questa città del Borno nigeriano, vessato dai continui attacchi dei miliziani di Boko Haram, ne avrebbe catturato uno, con un bastone, e lo avrebbe consegnato alle autorità. Da quell’episodio, che costituisce il mito fondativo del vigilantismo nigeriano, sarebbero iniziati dei pattugliamenti di civili sempre più organizzati, fino alla costituzione di un organismo di coordinamento chiamato CJFT (Civilian Joint Task Force), nel tentativo, finora di scarso successo, di dare uno status ufficiale al fenomeno.

I rischi derivano, paradossalmente, proprio dai successi ottenuti da queste milizie, evidenti sia in Nigeria che nei vicini Niger e Ciad: da un lato, ma mano che acquisiscono controllo sul territorio, tendono a trasformarsi esse stesse in attori di una strisciante guerra civile; dall’altro essendo spesso espressioni di realtà etniche o claniche, hanno una notevole inclinazione a scontrarsi al proprio interno accusandosi reciprocamente di collaborare con il nemico.  Su questo versante il caso più noto è quello dei Kanuri, accusati di essere alleati, almeno in parte, con Boko Haram e sottoposti ad attacchi e deportazioni di massa che interessano spesso villaggi di civili non necessariamente coinvolti con la guerriglia.

Una deriva che abbiamo già visto, con similitudini evidenti, in Colombia e che si sta replicando nel Messico settentrionale: la sfida di reintegrare queste milizie, nate da esigenze reali ma in taluni casi degenerate in organizzazioni incontrollabili, è oggi uno dei punti salienti del processo di pace. Se mai si dovesse arrivare ad un processo se non di pace almeno di abbassamento della tensione nella regione del Lago Ciad si riproporrà la stessa questione negli stessi termini.

I cristiani del Lago Ciad

Dei quattro stati interessati da queste dinamiche solo il Niger ha una popolazione pressoché integralmente musulmana (il 98 %); in Ciad i musulmani sono il 58 % ma i cristiani il 34 %, in Nigeria i due gruppi religiosi sono praticamente alla pari al 46 % ciascuno e il Camerun è una nazione dove i cristiani sono in maggioranza, il 70 % contro il 18 % di musulmani.  Formalmente tutti e quattro gli stati, compreso il Niger islamico, garantiscono la libera professione religiosa a livello costituzionale.

I problemi per i cristiani derivano dal fatto che queste nazioni hanno serie difficoltà a controllare le fazioni fondamentaliste che operano al proprio interno. Le persecuzioni religiose non arrivano quindi tanto dagli apparati quanto da gruppi fondamentalisti o terroristi che in occasione di incidenti, scontri ed attacchi hanno nelle piccole comunità cristiane il proprio bersaglio preferito. Il Rapporto 2017 sulla libertà religiosa, pubblicato da Aiuto alla Chiesa che Soffre ci fornisce un quadro a tratti drammatico.

Nel gennaio 2015 in Niger, durante incidenti di piazza scoppiati in seguito ad alcune dichiarazioni di solidarietà con le vittime dell’assalto a Charlie Hebdo, sono stati uccisi 10 cristiani e distrutte 70 chiese (l’80% dei luoghi di culto cristiani del paese) in quattro ore. Mi preme notare che le vittime di questi attacchi, morte per mostrare cristiana compassione verso chi ha passato la vita a dileggiare ed offendere la loro religione, hanno ricevuto da noi europei una frazione infinitesimale della solidarietà mostrata verso chi in si atteggiava a martire del “diritto di satira” praticando la bestemmia; neppure un gessetto colorato.

In Nigeria, secondo un rapporto diffuso ad inizio 2016 dall’agenzia Fides, negli ultimi 15 anni sono stati uccisi tra i 9.000 e gli 11.500 cristiani e 1,3 milioni sono stati costretti a sfollare. A questo si aggiunge la continua distruzione di case, attività economiche, luoghi di culto, scuole, istituzioni caritative, che hanno praticamente cancellato la presenza cristiana da alcune aree del nord del paese. Non è solo Boko Haram, certamente il carnefice principale, ma sono anche i contadini e allevatori musulmani a cacciare, intimidire e uccidere i loro concorrenti cristiani nella gestione delle risorse agricole.

L’aggressiva violenza anti-cristiana di Boko Haram non si ferma al confine nigeriano. Dei 336 attacchi registrati in territorio camerunense, molti sono stati diretti contro luoghi di culto ed istituzioni caritative cristiane al punto che i missionari vivono sotto scorta e devono comunicare all’esercito il luogo e l’ora delle funzioni per ottenerne protezione.

Per i cristiani il Lago Ciad si tinge di rosso.

Conclusione

Può risultare scoraggiante per tutti, autore e lettori, constatare che abbiamo fatto poco più che l’elenco delle infinite battaglie e tragedie che si agitano attorno a questo lago africano che abbiamo preso come baricentro del nostro discorso. Aggiungo che abbiamo intenzionalmente rivolto la nostra attenzione solamente alle situazioni che riguardano il quadrante di nord-ovest, verso l’Atlantico. Se la volgessimo ad est, verso l’Oceano Indiano, potremmo svolgere considerazioni del tutto analoghe parlando di Darfur, di Sudan (Nord e Sud), di al-Shabaab in Somalia, di traffico di droga (eroina, non più cocaina) e armi provenienti da Pakistan e Afghanistan.

Lo sforzo è stato quello di illustrare più che spiegare un quadro complessivo che ci viene fornito, nelle rare occasioni in cui ci viene fornito, in modo frammentario. Non è e non deve essere curiosità: questi fatti ci riguardano. È in bacini come questo che hanno origine i flussi migratori da cui siamo investiti, è su queste vie che transita la droga che uccide i nostri giovani, è (anche) sulle spalle di questi “muli” che viaggiano il terrorismo e le armi che ci colpiscono. La situazione non sembra destinata a migliorare se, come giustamente è stato notato, solo una piccola parte di queste masse, quella dei più “benestanti” che possono permettersi il viaggio, si è finora messa in moto. La distinzione fra profughi e sfollati, dove lo sfollato è colui che pur dovendo abbondonare la propria casa tende a rimanervi il più possibile vicino, ci dice che il potenziale migratorio di queste regioni è destinato ad aumentare: se la situazione non migliora con il tempo gli sfollati diventeranno profughi e migranti.

Sono fenomeni che si sono andati stratificando nei decenni, forse nei secoli, pertanto non suscettibili di soluzioni immediate: inutile illudersi. Sono la rappresentazione plastica di un mondo in frantumi. Come sempre succede durante i crolli, i primi ad essere travolti dai detriti sono quelli dei “piani bassi”, i più deboli, le oramai celeberrime “periferie”. Le soluzioni vanno individuate nell’area della ricostruzione dell’edificio-mondo e non del rimescolamento cosmetico delle macerie.

Da qui derivano le enormi responsabilità dell’Europa, le nostre responsabilità. L’Europa con il cristianesimo ha fornito il modello, l’armatura di acciaio dei pilastri che hanno retto la società armonizzando, per quanto possibile all’umana debolezza, verità e carità. L’edificio sta crollando perché quell’acciaio che lo reggeva è stato giudicato poco “moderno” e gettato in discarica. La rinuncia ad un modello di società ispirata alla Dottrina Sociale della Chiesa è la radice, non unica ma principale, di questo crollo.

Non è davvero un caso se il Vangelo invita ad usare l’amore per sé stessi come unità di misura per l’amore verso il prossimo: come può la società europea che odia sé stessa amare efficacemente le sconosciute popolazione di pescatori del Lago Ciad?