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SOVRANITA’ NAVALE

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SOVRANITA’ NAVALE

Popolo di navigatori ……

Da parecchio tempo i vertici della Marina Militare continuano a elevare grida di allarme sul livello di obsolescenza del nostro naviglio e l’assenza di piani per un pur lento rinnovamento delle principali unità navali. Qualcuno potrà obbiettare che la cronaca politica ed economica ci propone quotidianamente temi che sembrano più urgenti ed importanti. Probabilmente è per questa ragione che i numerosi interventi pubblici del Capo di Stato Maggiore della Marina sul tema sono passati quasi inosservati. A me sembra che anche questo tema ci possa dire qualcosa all’interno del più generale quadro di crisi della società italiana.

Partiamo dal fatto: L’Ammiraglio De Giorgi ha lanciato l’allarme sul fatto che nei prossimi 10 anni la nostra Marina Militare rischia di essere ridotta all’impotenza operativa perché dovranno essere radiate, per raggiunti limiti di età, 50 delle attuali 60 navi. Parimenti il personale dovrà passare da 36mila a 24mila unità. Servirebbe un investimento di 10 miliardi Euro nei prossimi 10 anni per mantenere in vita il nostro strumento militare marittimo. E’ legittimo chiedersi se ne vale la pena e non intendo sfuggire alla domanda.

Come mi è capitato di dire in altre e simili occasioni ritengo che le considerazioni di natura economico-industriale siano molto importanti ma non vadano affrontate per prime all’interno di una riflessione sul ruolo e funzione delle Forze Armate.

Il primo punto è di natura “etica”. Le Forze Armate (e la Marina tra queste) svolgono all’interno della Nazione un compito che non è solo operativo. Rappresentano anche, e forse in primo luogo, un ambito formativo per le giovani generazioni e un rilevante ruolo simbolico per il popolo tutto. Attraverso il “servizio” al paese (non certo l’unico, per carità) molte migliaia di uomini e donne ogni anno imparano e praticano istituzionalmente virtù sociali come la disciplina, l’ordine, il rispetto, il dovere verso commilitoni, superiori e Patria. A ben guardare mi sembra che siano alcune delle molte virtù che come popolo italiano abbiamo perso negli ultimi decenni avvitandoci in una crisi che, come molti sociologi stanno notando, è anche di orgoglio e dedizione. Siamo sicuri che tutto questo sia inutile? Nello svolgere questo ruolo le Forze Armate finiscono con l’assumere anche una valenza simbolica a livello generale: l’amor di Patria passa anche attraverso a quel senso di orgoglio che rassicura e commuove molti noi quando vediamo passare le Frecce o sfilare a mare la Vespucci. Non è romanticismo è realismo: a volte la Patria per essere amata va anche vista, quasi toccata, e gli emicicli parlamentari in questo periodo non svolgono esattamente questa funzione.

A stretto giro vengono le considerazioni strategiche e politiche. Ci si dice da più parti che quello dell’Italia di questi anni è un problema, anche, di ruolo sullo scacchiere internazionale. All’Italia il ruolo principale lo ha affidato il Creatore piazzandola esattamente al centro del Mediterraneo e sembra evidente che senza una Marina non può essere sostenuto. Le crisi in Medio Oriente e in Nord-Africa non sono eventi passeggeri e richiederanno presenza e pattugliamenti costanti. I flussi migratori attuali (tragedie comprese) sono solo un pallido antipasto di quello che ci toccherà vedere nei prossimi decenni. E’ vero che sono temi che passano sempre più per una gestione internazionale alla quale anche altre nazioni devono contribuire, ma senza naviglio quale potrà essere il nostro contributo? Incitare i tedeschi dal bagnasciuga? E le operazioni anti-pirateria, che in futuro dovranno avere un respiro ben più ampio di quello attuale? Con una marina mercantile come la nostra e il nostro ruolo economico, ancora vivo anche se malconcio, di importatori di materie prime ed esportatore di lavorati? davvero possiamo pensare che gli americani continueranno all’infinito a supplire alle nostre carenze? Nella strategia navale di tutte le nazioni in tutti periodi della storia un caposaldo era la proiezione di potenza o, come si dice in gergo, “mostrar bandiera”. E’ un problema che ogni nazione sovrana intenzionata a svolgere un ruolo di prestigio internazionale deve porsi. La riprova è data dalla recente inversione di rotta della Cina Popolare che dopo secoli di isolazionismo da marina costiera, oggi, nel momento in cui vuole assurgere a ruolo di potenza mondiale, focalizza una parte rilevante dei propri investimenti nel campo delle costruzioni marittime d’altura. E la stessa Cina, pur con la sua colossale capacità di investimento, ci insegna anche un’altra cosa: una marina non te la inventi; se non ce l’hai o l’hai smantellata ci vogliono parecchi decenni per metterla in piedi. Se si pensa di aver bisogno di navi bisogna attrezzarsi molto, ma molto, prima: si chiama pianificare, ma per il nostro mondo politico sembra una bestemmia.

A questo punto possiamo svolgere considerazioni di natura economica. La nostra cantieristica navale, un tempo fiore all’occhiello della manifattura pesante italiana, langue in condizioni disastrose. La costruzione di naviglio mercantile ha preso da tempo la strada dell’estremo oriente e quella delle grandi navi da crociera sta prendendo la strada di Francia e Nord Europa. Da noi restano bacini vuoti e maestranze da accompagnare alla pensione sulle ali della cassa integrazione. Per contro nel tipo di investimento suggerito, magari anche pro domo sua, i famosi 10 miliardi in 10 anni porterebbero un ritorno fiscale di 5 miliardi, un risparmio di 4,2 mld sui futuri ammortizzatori sociali e una capacità di impiego di 25.000 persone sullo stesso periodo. Togliamoci dalla testa l’dea che la contrazione in atto possa essere provvisoria e che il settore, smantellato oggi, possa in futuro riprendere vita. La cantieristica richiede una tradizione secolare e nessuna nazione sarebbe in grado di ricostruirlo da zero. Occorre poi considerare le ricadute tecnologiche. La ricerca sta ponendo le basi di una nuova generazione di mezzi navali sia civili che militari ma queste ricerche non possono rimanere sulla carta o nella vasche di sperimentazione e, da sempre, il banco di prova ideale sono le commesse militari che però da noi continuano ad essere annoverate tra gli “sprechi”.

Conosco l’obiezione: con tutti i problemi che abbiamo! Quanti esodati ci potremmo sistemare con 10 miliardi di Euro? Se l’alternativa fosse davvero questa sarei, ovviamente, il primo a essere d’accordo. Temo proprio che però non sia così semplice. In primo luogo non ci credo che i 10 miliardi “risparmiati” finiscano nelle tasche dei più bisognosi: è molto più probabile che vadano a coprire buchi di bilancio per spese improduttive, o nei mille rivoli della corruzione amministrativa.  In secondo luogo dobbiamo uscire dalla logica del puro esborso assistenziale (sempre meno sostenibile) e cominciare ad operare come chi fa investimenti destinati ad un ritorno economico magari non remunerativo ma il cui utile si misura in maggior lavoro. In parole semplici: anziché risparmiare per produrre disoccupati a cui dare un sussidio, spesso miserabile perché i conti sono quello che sono, cominciare a investire per creare posti di lavoro normalmente retribuiti. L’alternativa è il paradosso del Supremo Ragioniere Saccomanni: ”L’economia migliora ma la disoccupazione aumenta”.