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L’ULTIMO GRIDO

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L’ULTIMO GRIDO

Le cattedrali non sono (soltanto) un’opera d’arte, sono un’opera di fede. Nel tempo qualcuno le ha definite inno di pietra, come un preghiera scritta nella nel duro granito. Il gotico, poi, ha un’espressività davvero particolare in quello slancio verticale che porta irresistibilmente chi guarda a stare con il naso all’insù.

Credo di aver visitato la maggior parte delle grandi cattedrali gotiche d’Europa e in ognuna amo sempre fare un esperimento: collocarmi esattamente al centro, nell’incrocio fra la linea dei transetti e quella della navata,  e ribaltare la testa verso l’alto. Si prova quasi una vertigine che ti risucchia verso l’alto, verso la convergenza di quelle linee di fuga che sembrano unirsi soltanto in cielo.

La cattedrale è fatta per essere  “letta”: le vetrate, i portali, l’infinito numero di piccolissime figure scultoree che la ricoprono, raccontano innumerevoli  storie. Episodi sacri ma anche profani, letti,  però, con le lenti del sacro. Le cattedrali sono inni di pietra perché parlano, insegnano, raccontano.

E’ questo lo spirito che le ha generate, uno spirito “missionario” – in un’epoca, come il Medioevo, dove il linguaggio missionario era fortemente simbolico – destinato a scavalcare i secoli con il racconto tangibile della fede che le ha concepite e costruite.

Parlare, nel senso missionario del termine, significa suscitare un sentimento in chi ascolta e le grandi cattedrali gotiche d’Europa lo hanno fatto per quasi un millennio: indicare il cielo, cioè Dio, come il dito dell’Arcangelo. Mio padre, uomo di fede e di montagna, amava ripetere che le montagne sono le cattedrali di Dio.

La cattedrale di Notre-Dame de Paris ci ha parlato anche ieri, con un ultimo grido simboleggiato da quella guglia che crolla tra le fiamme. Ci ha ricordato che anche i testimoni che hanno superato i secoli possono scomparire; che anche i simboli più belli possono esserci sottratti dal destino o dalla mano dei malvagi; che la bellezza non è scontata e può sparire. Ci ha insegnato che possiamo essere chiamati a ricostruire tale bellezza.

L’impressione che ho avuto, forse in maniera illusoria, è che lo sgomento che ho visto dipinto sui volti che assistevano alla distruzione fosse l’emblema di una paura, quasi certamente inconsapevole: quella di non essere più capaci a ricostruire qualcosa di simile. Non parlo della capacità tecnica, anche se non la darei per scontata. Parlo della capacità “espressiva” di un’epoca che, non sapendo più leggere i simboli della fede, non si sente più in grado di rappresentarne la bellezza.

Oggi si parla di ricostruire la cattedrale ferita, si cercano i disegni, i modelli e le fotografie, si sondano tecniche ultra-precise di modellazione per rifarla uguale, ma il dubbio (forse la certezza) è che non sarà mai la stessa. Perché ? Forse perché l’uomo moderno è perfettamente in grado di imitare il manufatto della cattedrale ma il suo animo, il suo cuore, la sua mente non  sono più in grado di rivivere l’anelito del cielo che l’ha immaginata ancora prima di costruirla.