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Uccidere per una t-shirt

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Uccidere per una t-shirt

La crisi non assolve da tutti i peccati.

Il bilancio delle vittime del crollo nel complesso industriale di Rana Plaza alla Periferia di Dacca, in Bangladesh, è cresciuto nei giorni scorsi di ora in ora. A una settimana dal disastro le vittime superano le 350, alle quali vanno aggiunti gli oltre 700 dispersi. Nell’edificio di otto piani, imploso dopo giorni di scricchiolii e crepe sempre più evidenti, lavoravano 3.000 persone, a ciclo pressoché continuo. Nelle strade sta esplodendo la rabbia della gente che perfino in un paese abituato a tragedie continue ed immani, non tollera più di vedere migliaia di persone morire ogni anno fra incendi e crolli nelle “fabbriche della vergogna” dell’industria tessile (e non solo) del paese, per meno di un dollaro al giorno.

La notizia ha provocato in occidente le solite reazioni di cordoglio e indignazione. Si, le solite, perché il copione segue alla lettera quello già visto in occasione dell’incendio a Tazreen (novembre 2012, 112 morti) o quello di Karachi, Pakistan, (settembre 2012, 300 morti). Tutte queste fabbriche producevano abbigliamento low-cost per primari gruppi mondiali dell’abbigliamento (anche italiani). In una lunga e rituale processione di comunicati stampa molte di queste aziende, il cui fatturato annuo supera in alcuni casi il PIL del Bangladesh, hanno sottolineato la propria estraneità alla tragedia, evocando il fatto che spetterebbe alle autorità locali controllare le condizioni di lavoro nei siti industriali e che non avevano rapporti diretti con le ditte incriminate. In termini rigorosamente tecnico-giuridici queste affermazioni corrispondono al vero. Raramente troverete sui capi di abbigliamento venduti nei nostri discount la scritta “Made in Bangladesh”, del resto non sarebbe davvero molto fashion. In realtà il tessile destinato all’export occupa l’80 % del PIL di quel paese, vi operano 5.000 aziende (ufficiali) di prodotti e semilavorati tessili, per un controvalore di quasi 20 miliardi di $. Ogni anno vengono prodotti 200 milioni di paia di jeans, buona parte dei quali invecchiati con la tecnica della sabbiatura, messa al bando da molti paesi per la dannosità sui lavoratori addetti all’operazione. Dove finiscono questi prodotti? L’uso dei famosi intermediari, i quali sottoscrivono agevolmente tutti i codici etici del mondo ma a loro volta non ne impongono nessuno, non serve per caso a mettere una certa distanza tra le “fabbriche della vergogna” e quei marchi che ostentano sui loro siti le attività benefiche e ed ecologiche delle proprie fondazioni? E’ seriamente possibile immaginare che un paio di jeans o una maglietta la cui produzione in Europa costa 10 e in Bangladesh meno di 1 avvenga davvero in entrambi i siti con il rispetto delle stesse regole e diritti? La crisi è dura, i soldi scarseggiano, ma la fisica economica non perdona. Per ottenere una bottiglia di vino decente ci vogliono più di 2 kg di uva, mesi di lavoro, attrezzature, siti di stoccaggio, bottiglia, tappo ed etichetta. Se sullo scaffale, aggiunti tutti i ricarichi della catena produttiva e distributiva, mi ritrovo un prodotto venduto a meno del costo della sola bottiglia di vetro posso facilmente capire che da qualche parte c’è il trucco. Non mi sarebbe lecito cadere dal pero immaginando che il tutto sia frutto di volontaria beneficenza. Perché dovrebbe essere diverso per le calzature, gli abiti, gli elettrodomestici?

Quei disperati che in queste ore stanno lottando sotto le macerie di Rana Plaza sono gli involontari “concorrenti” degli operai del tessile italiano che picchettano le loro ex-aziende per salvare il loro posto di lavoro. Nella maggior parte dei casi si tratta infatti di attività delocalizzate dai siti nostrani per ragioni di costo e di regole. E’ una catena che non si ferma mai. Il caso dei jeans sabbiati non è solo un esempio : la prima delocalizzazione era avvenuta già alcune decenni or sono verso la Turchia, quando anche questo paese ha imposto regole sanitarie a tutela degli operatori, le produzioni si sono spostate in Cina, Bangladesh, Pakistan, dove tutto è tollerato. L’Europa e l’Italia questo problema devono porselo: la schiavitù è, ovviamente, un modello di “relazioni industriali” straordinariamente competitivo contro il quale non è possibile alcuna concorrenza. Cosa vogliamo fare? Abbassare i nostri standard al loro livello o provare a costringerli ad alzare il loro livello in direzione del nostro? Sarebbe, forse, il caso di riproporre anche in sede comunitaria il concetto di “dazio etico” da applicare alle importazioni da quei paesi in cui non vengono garantiti e tutelati almeno i diritti fondamentali dei lavoratori. Non si tratta solo di tutelarci da una evidente concorrenza sleale ma anche di tornare a riscoprire quel ruolo morale di Europa civilizzatrice dei popoli che abbiamo svolto per millenni in passato.

Tutti sono chiamati a riflettere ed agire. Le grandi aziende del settore potrebbero utilmente essere costrette scegliere da che parte vogliono stare. Sembra davvero troppo comodo, infatti, percepire aiuti ed incentivi in Italia e in Europa per tutelare il Made in Italy dalla concorrenza orientale e, contemporaneamente, andare a produrre in quei paesi per garantire comunque, con le linee low-cost, i propri lauti livelli di profitto. I Sindacati potrebbero utilizzare gli strumenti di pressione a loro disposizione per chiedere agli Stati di stabilire un quadro di relazioni e accordi che tengano nel dovuto conto anche l’aspetto dell’equilibrio dei diritti dei lavoratori fra Europa e Far East. Sarebbe questo uno dei modi più efficaci per tutelare il primo degli interessi dei propri iscritti: quello di avere un posto di lavoro; facendo anche, per inciso, una cosa eticamente giusta. Qualche Procura, che ha mosso mari e monti per accertare le relazioni parentali di Ruby Rubacuori, potrebbe chiedere alla diplomazia italiana di attivarsi per recuperare presso le autorità doganali del Bangladesh i documenti di viaggio delle merci prodotte in quel complesso industriale. Chissà che qualcuno dalle nostre parti non possa finire nelle grane per incauto acquisto di merce frutto di reato (riduzione in schiavitù, ad esempio) stante il criterio, presente dal nostro ordinamento, della palese incongruità del prezzo. In fondo vengono quotidianamente montati casi giudiziari a vertente ideologico su basi ben più aleatorie. Il Governo Italiano appena costituto, così attento nei suoi componenti e nelle sue intenzioni a vincolare i cittadini italiani al doveroso rispetto dei doveri di integrazione verso gli immigrati, potrebbe rivolgere per qualche minuto il proprio sguardo ai paesi di origine dei suddetti immigrati per contribuire ad alleviare quella disperazione che è la prima forza motrice dell’industria migratoria. Non ultimi anche i consumatori dovrebbero ogni tanto chiedersi se “l’affarone” che hanno in borsa non sia per caso macchiato di sangue innocente. La crisi non assolve da tutti i peccati: accanto ad aree di grande difficoltà e povertà, sopravvive, in Italia, una fascia di consumatori che, entro limiti anche modesti, ha la fortunata possibilità di scegliere e, conseguentemente, ha anche la responsabilità di tali scelte.

Non è solo un problema etico-economico: in un mondo oramai completamente globalizzato tutto si trasforma in un problema geopolitico. Il Bangladesh è un paese di 164 milioni di abitanti, l’89% di fede musulmana, il 33% con meno 14 anni. Nel paese operano da anni organizzazioni islamiste ultra-fondamentaliste che stanno costituendo una vera e propria classe dirigente alternativa di riferimento per le masse disagiate della popolazione. I periodici focolai di rivolta originata dal disagio sociale, anche quelli di questi giorni, sempre più spesso sembrano guidati da questa classe dirigente islamista. Non c’è bisogno di essere Churchill per immaginare le conseguenze mondiali di una deriva jihadista in un paese che ha quasi tre volte la popolazione dell’Italia. Immaginatevi di tornare ragazzini e di essere uno qualunque dei 54 milioni di bambini sotto i 14 anni del Bangladesh, costretto a lavorare dalla più tenera età in turni massacranti di 12-14 ore a temperature di 60 gradi, 7 giorni su 7. Potreste anche immaginare di vedere uno dei vostri genitori morire nel rogo o nel crollo di una di quelle fabbriche nelle quali è stato costretto a lavorare sotto ricatto di licenziamento e conseguente morte per fame. Poi un giorno incontrate, per caso, un benevolo, sapiente e barbuto Mullah che vi porta nell’ombreggiato cortile di una Madrasa, vi offre del thè, e vi spiega che tutti questi vostri sacrifici sono serviti per compiacere la lasciva bramosia dei “crociati” occidentali, avversari diabolici di quell’Iddio Potente e Compassionevole che ricompensa con le delizie del Giardino chi combatte e muore per la sua Gloria. La chiave di quel giardino è una bomba da piazzare sotto il sedere di quelli che, per cambiare jeans tutti giorni, vi hanno ridotto in quelle condizioni. Secondo voi non ne trova proprio nessuno che gli dice di sì?

Non si tratta di giustificare il terrorismo ed ho ben chiaro che il profilo sociale del terrorista islamico che conosciamo, prevalentemente di ceto e cultura medio-alti, non corrisponde a questo. Ma il mondo cambia e l’impressione è che noi occidentali non abbiamo la più pallida idea di ciò che potrebbe scaturire dall’incontro delle elites jihadiste con le masse islamiche indigenti. Una lettura sotto-traccia del filo che unisce gli esiti ultimi delle Primavere Arabe può averci suggerito qualcosa…. se questo vi ha preoccupato sappiate che ancora non abbiamo visto niente.